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Definizioni di umanità nell’Europa del XVIII secolo

Nelle fasi di studio alcuni argomenti colpiscono maggiormente l’attenzione. Nell’approfondire alcuni argomenti di antropologia culturale, mi sono ritrovato gli appunti della Collega Emanuela Motta che riporto a seguire.
Quanto inserito non rappresenta un post a carattere scientifico redatto da un professionista, ma uno scambio di appunti tra studenti.

Un certo numero di importanti questioni antropologiche fu posto per la prima volta in forma moderna durante l’Illuminismo: cosa definisce in astratto la specie umana, cosa la distingue dagli animali, e qual è la condizione naturale degli esseri umani? Su tali questioni l’attenzione si concentrò su tre forme di vita: i «ragazzi selvaggi» e le «ragazze selvagge», gli «Orang Outang» (primati), e i «Selvaggi» (abitanti indigeni di altri continenti):

  1. I Ragazzi selvaggi: durante il diciottesimo secolo iniziarono a proliferare le storie sui ragazzi selvaggi. Questi erano ragazzi trovati soli nei boschi a cui alcuni studiosi provarono ad insegnare le maniere «civili» che evidentemente fino a quel momento non avevano ancora acquisito. L’interesse per i ragazzi selvaggi è andato scemando. Ciò è dovuto in larga misura al fatto che gli antropologi moderni si interessarono sempre meno all’astratta e primitiva «natura umana» che questi ragazzi presumibilmente manifestavano, invece si concentrarono sempre più alle relazioni tra gli esseri umani in quanto membri delle rispettive società.
  2. L’Orang Outang: Orang Outang è un termine malese che significa «uomo della foresta», significava molto approssimativamente ciò che la parola «scimmia» significa oggi, quindi sta ad indicare in linea generale una essere ritenuto quasi umano. I viaggiatori raccontavano che queste creature quasi umane e pressoché cieche vivevano in caverne in Etiopia e nelle Indie orientali. L’importanza dell’Orang Outang è stata messa in rilievo nel dibattito tra due personaggi interessanti, James Burnett (Lord Monboddo) e Henry Lome (Lord Kames).
  3. I Selvaggi: il termine «selvaggio» non era considerato offensivo in quanto connotava semplicemente il vivere selvaggio e libero. Il prototipo del selvaggio era l’indiano americano che, nonostante possedesse una cultura nel senso moderno del termine, era, secondo l’opinione comune, molto prossimo all’idea di «uomo naturale» rispetto a quanto lo fossero gli uomini europei. Il «selvaggio» non era considerato misero, sgradevole o brutale, la natura era
    buona, mentre la società era malata e corrotta. Secondo Rousseau la nostra società iniziò ad «ammalarsi» con l’introduzione della proprietà privata che causò l’accumulazione di ricchezza e incentivò la crescita delle disuguaglianze. Per questo la società civile doveva restaurare l’uguaglianza naturale varando leggi giuste e cercando di ristabilire parte della uguaglianza naturale scomparsa. Non tutte le società sono progredite alla stessa velocità, quelle selvagge, secondo Rousseau, mantenevano alcuni attributi dell’età dell’oro, come le società selvagge
    dell’Africa e delle Americhe.

Per le teorie antropologiche che enfatizzano la differenza tra «primitivi» e «non primitivi» (teorie evoluzioniste), il buon selvaggio è la rappresentazione della natura nel primitivo. In quelle che non fanno questa distinzione (relativiste) il buon selvaggio è il riflesso della umanità comune alla base di ogni cultura.

Coscienza collettiva di Durkheim

Nelle fasi di studio alcuni argomenti colpiscono maggiormente l’attenzione. Nel proseguire la mia preparazione per gli esami di antropologia culturale, ho deciso di pubblicare una porzione di quanto studiato. Ciò che riporto a seguire, quindi, non rappresenta un post a carattere scientifico redatto da un professionista.

Secondo Durkheim la coscienza collettiva si differenzia dalla coscienza individuale ed è l’insieme di rappresentazioni, norme e valori, condiviso dai membri di una società, e come tale costituente la dimensione societaria di questo insieme di persone.
Ciò significa che una società di individui si distingue da un aggregato di persone in quanto la prima si propone dei veicoli che strutturano e regolano l’interazione e il comportamento degli individui tramite rappresentazioni collettive, valori, norme, istituzioni e sanzioni: ossia dispone di una coscienza collettiva che definisce la sua dimensione sociale. Le relazioni tra i membri all’interno della società sono dunque regolate da questi fattori che orientano sia la produzione materiale sia quella intellettuale.
Il concetto di coscienza collettiva si inserisce nell’opera di Durkheim nella sua generale elaborazione sul mutamento sociale, secondo la quale nelle società moderne si sarebbe in presenza di una riduzione della presa della coscienza collettiva su quelle individuali.

Bourdieu: conoscenza prassiologica

Nelle fasi di studio alcuni argomenti colpiscono maggiormente l’attenzione. Nel proseguire la mia preparazione per gli esami di antropologia culturale, ho deciso di pubblicare una porzione di quanto studiato. Ciò che riporto a seguire, quindi, non rappresenta un post a carattere scientifico redatto da un professionista.

Tra i tanti che hanno contribuito negli anni ’60 ad una revisione critica dei metodi dei paradigmi antropologici, c’è il sociologo francese Bourdieu che svolse ricerche fra i berberi d’Algeria al tempo della guerra di liberazione algerina dal colonialismo francese e andò elaborando una prospettiva teorica originale che ha i propri fondamenti nella teoria prassiologica della conoscenza e in quella dell’ habitus, strettamente legate fra loro.
Per Bourdieu, la conoscenza prassiologica tiene conto maggiormente dei fenomeni indagati dall’antropologia e dalla sociologia. Si osservano le pratiche sociali cogliendole non con lo sguardo della conoscenza fenomenologia ma con lo sguardo di chi sa che tali pratiche sono intimamente connesse con le strutture colte dalla conoscenza oggettivistica. La peculiarità della conoscenza prassiologica consiste nel vedere la pratica agita come riflesso dell’incorporazione delle strutture oggettive del mondo sociale come i rapporti economici, relazioni di autorità, di gerarchia e le ideologie sul proprio gruppo di appartenenza.
L’ habitus è definito da Bourdieu come “un sistema di disposizioni durature predisposte a funzionar come struttura strutturante”. Il nostro modo di essere nel mondo è condizionato dalle strutture a noi esterne che sono studiate dalla conoscenza oggettivistica: relazioni economiche, sociali, politiche, ideologiche. Ma questo nostro modo di essere, tende a strutturare, dare forma, al mondo esterno medesimo. La distinzione individuo/società tende così ad attenuarsi, per cui il comportamento individuale può essere visto come qualcosa modellato dalla realtà sociale e al tempo stesso, contribuisce a modellare quest’ultima.